Vittìmia
I sogni si erano spenti nella città di Vittimia. Pezzetti di gomma piuma cadevano giù come neve mischiandosi ai neuroni dei cervelli, il battito cardiaco generale dell’universo era accelerato, le carni cascanti come buste vuote della spesa. Ci voleva un cambiamento radicale.
“Ricostruite Vittimia”, era il grido d’allarme che si levava ogni giorno dalle piazze, i contadini in massa scendevano a valle con i loro panieri vuoti e reclamavano il raccolto perso. Avevano le camice sporche, le facce rugose, le scarpe rovinate dal continuo rosicchiare dei topi, l’anima in pena.
Il capo di Vittimia, despota e uomo senza religione, li osservava dall’alto come formiche da schiacciare e di tanto in tanto lanciava loro altri pezzetti di gomma piuma che donne e bambini mendicavano per riempire cuscini di carta e materassi. Gli stessi su cui la notte prima avevano poggiato le loro facce stanche e sporche, le loro schiene fatte a pezzi da ore di lavoro inutile, le loro pance vuote, sradicate di budella contorte. Mancava l’acqua per lavare via gli strati di anni di polvere.
Intanto catrame bollente cuoceva dentro grandi pentole di rame e bruciato, dai camini fumo nero e denso si mischiava all’aria color piombo e bocche affamate di cani randagi sopravvissuti alla peste di quel tempo, leccavano ferite di carogne. Carcasse di uomini e donne, morti alcuni giorni prima colpiti da altre sconosciute malattie.
Se i sogni si erano esauriti che cos’altro poteva essere fatto? La putrefazione era alle porte, un caos lento e violento avvolgeva silenzioso i tetti rotti della città strangolandoli pian piano; mantelli di velluto violacei e polverosi di ragnatele volteggiavano senza corpi, era la morte. E nessuno l’aveva mai immaginata così. Il conto alla rovescia era già finito da un pezzo, i vermi si muovevano lenti e spenti…